Spesso si sente dire che il mondo dei gas refrigeranti procede verso nuove direzioni. In realtà i primi gas refrigeranti utilizzati nel settore della climatizzazione e della refrigerazione erano proprio quelli che oggi sono considerati la nouvelle vague: ammoniaca, anidride carbonica, idrocarburi. Proviamo a vedere come è andata
La chimica dei gas refrigeranti è da sempre ampiamente al centro dell’attenzione nei settori refrigerazione e climatizzazione. I primi gas refrigeranti sintetici avevano buone proprietà termodinamiche ma comportavano un’azione negativa nei confronti dello strato di ozono, detto anche “buco dell’ozono“. Un altro fattore di rischio dei gas riguarda il riscaldamento globale (effetto serra). Il ritorno ai gas refrigeranti naturali quali il propano, l’ammoniaca, l’anidride carbonica pone questioni importanti in termini di sicurezza
Sappiamo tutti che in un momento in cui la refrigerazione e la climatizzazione hanno cominciato a diventare una richiesta diffusa, le grandi aziende della chimica hanno cercato soluzioni meno pericolose e difficili da gestire di quei gas la cui molecola era disponibile in natura. Propano, isobutano, CO2, NH3 avevano dato infatti il modo di ottenere le prestazioni richieste a un ciclo frigorifero, ma rimanevano delicate le modalità di gestione di problemi caratteristici di questi gas: innanzitutto l’infiammabilità, poi la tossicità nel caso dell’ammoniaca, pur controbilanciata dalla sua qualità frigorifera. Non dimentichiamo che i gas refrigeranti non producono freddo, ma asportano calorie dall’ambiente riscaldandosi: questo fa sì che alcuni di questi gas a base di una molecola presente in natura siano ideali per effettuare questo lavoro e lo svolgano grazie a proprietà decisamente interessanti, ma come abbiamo appena detto, anche caratterizzate da rischi. Ne sono nati i gas sintetici, un prodotto della ricerca scientifica applicata di grandi gruppi multinazionali, un fenomeno interessante dal punto di vista tecnico, perché questi erano i prodotti sostitutivi con proprietà frigorifere anche superiori a quelle dei gas cosiddetti naturali, ma riducevano largamente le quote di rischio che le caratteristiche di CO2, NH3 eccetera generavano per il tecnico. Una soluzione certamente gradita, in un’epoca in cui l’industria chimica aveva largamente rivoluzionato numerosi settori industriali e filiere di produzione, pensiamo solo all’agricoltura e l’allevamento, così beneficati da antiparassitari e altre sostanze realizzate dai grandi gruppi della chimica internazionale. Una situazione gradita in un’epoca di boom economico e boom demografico, con sempre più persone che volevano un frigorifero in casa e poi un raffrescatore dell’aria nei locali più caldi del proprio appartamento per poter dormire d’estate.
Refrigerazione e climatizzazione
La diffusione della refrigerazione e della climatizzazione è stata parallela alla diffusione del benessere e la disponibilità industriale di questi gas l’ha sostenuta e incentivata: l’idea di mettere in cucina un elettrodomestico che “non comportasse rischi” di infiammabilità o di tossicità ha gratificato un’intera generazione nei paesi industrializzati e poi a cascata anche nei paesi più influenzabili dal modello di produzione di massa. È stata l’epoca in cui sono nati i supermercati e hanno trasformato completamente il modo di acquistare non solo i beni di consumo in genere, ma soprattutto gli alimentari, perché si è terribilmente allungata quella catena del freddo che un tempo era a km zero. Il condizionatore d’aria è stato uno status symbol e chi gestiva questi elementi era un tecnico “nuovo”, molto vicino ad altri soggetti come l’idraulico e l’elettricista, ma con una competenza sua, appunto: quella del ciclo frigorifero e del gas refrigerante. Ma come tutte le innovazioni anche questa ha prodotto benefici e costi, primo fra tutti quello ambientale: con il tempo si è scoperto che queste sostanze chimiche brevettate erano sì efficienti dal punto di vista della resa frigorifera e anche risolutivi per la sicurezza.
Deplezione dell’ozono
Nacquero all’inizio degli anni ’90 le osservazioni sempre più preoccupate di scienziati climatologi sull’effetto che questi gas refrigeranti sintetici avevano generando un buco (assotigliamento) nello strato di ozono costitutivo dell’ozonosfera, un primo campanello di allarme climatico che permise di misurare quanto la prima generazione di gas sintetici avesse la capacità di fare anche danni all’ambiente. I CFC, i Clorofluorcarburi vennero vietati e messi al bando e sostituiti da una nuova generazione, gli HCFC o Idroclorofluorcarburi, meno impattanti e comunque capaci di prestazioni frigorifere interessanti da un punto di vista tecnico e soddisfacenti anche sul fronte dei consumi elettrici necessari per ottenere la prestazione frigorifera. Ma anche questa seconda generazione di refrigeranti aveva le sue pecche: anche gli HCFC toccavano con le loro formule lo sviluppo dell’area di buco dell’ozono nell’atmosfera. Un argomento delicato, che per anni fu trattato dai media in maniera giustamente allarmistica, con l’esito di produrre prima il Protocollo di Montreal (1987), poi il Protocollo di Kyoto (1997) e procedure sempre più restrittive sulla possibilità di utilizzare gas refrigeranti per i quali si coniò l’espressione “climaimpattanti”.
Gas refrigeranti con effetto serra: i ‘gas serra’
Una volta affrontato il problema delle sostanze ozonolesive entrò in campo un secondo capitolo: la capacità dei gas refrigeranti, una volta rilasciati in atmosfera, di collaborare al riscaldamento globale, il mantra che ci accompagna ormai da più di vent’anni e che mette a rischio la sopravvivenza dell’uomo sul pianeta. I gas anche a base idroclorofluorurata entrarono nell’occhio vigile del legislatore che a fronte del consenso della comunità scientifica sull’argomento impose con l’Emendamento di Kigaly al Protocollo di Montreal (2016) un ulteriore sforzo tecnologico a cui l’industria rispose con una nuova generazione di gas sintetici, gli HFC, idrofluorcarburi.
Arrivano le pompe di calore
Nel mercato più avanzato, quello appunto in cui ci troviamo, era avvenuta un’altra “rivoluzione tecnologica”, la diffusione della pompa di calore per il sistema riscaldamento raffrescamento, che aveva comportato un enorme allargamento della base di utilizzo del ciclo frigorifero andando a fare prima concorrenza, poi a sostituire il mondo delle vecchie caldaie e affiancandosi alla caldaia a condensazione nei sistemi ibridi. Quindi più utenti per gas che erano comunque ancora sotto l’occhio giudicante di scienziati e legislatori. Il riscaldamento globale non dà tregua e l’Unione Europea, vuole stimolare al buon esempio nei confronti del problema con regolamenti sempre più restrittivi sull’uso di sostanze che generino un impatto in termini di incremento delle temperature atmosferiche: vero è che l’inconsapevole (e qualche volta colpevole) rilascio dei refrigeranti dai circuiti ha prodotto migliaia di tonnellate di CO2 equivalente in atmosfera e quindi l’attenzione sull’uso di gas refrigeranti con indice di riscaldamento elevato è diventata spasmodica. Oggi siamo davanti a un ulteriore tentativo delle grandi aziende multinazionali di produzione di rimanere nel mercato dei refrigeranti: il mondo delle idrofluorolefine (HFO) sta provando a rimanere in campo, ma la pressione normativa in Europa è ormai avviata verso una situazione in cui ritorneremo in maniera larghissima ad utilizzare refrigeranti tradizionali, molecole non brevettate, i gas che di volta in volta sentiamo chiamare alternativi, naturali, tradizionali.
Ritorno ai gas naturali
Siamo così tornati – dalla ricerca di laboratorio – alla scoperta o riscoperta delle proprietà frigorifere di fluidi come il propano, l’anidride carbonica, l’ammoniaca, mai dimenticati da tecnici di qualità, ma spesso trascurati da chi – giustamente – avendo a che fare con impianti più semplici preferiva soluzioni refrigeranti in sintonia con la semplicità dell’impianto. La direzione di questa trasformazione è sicuramente non invertibile, nessuno di noi può in alcun modo chiamarsi fuori da questo percorso, ma le difficoltà di utilizzo dei gas tradizionali sono rimaste: sia quelle fisiche (pensiamo al punto critico dell’anidride carbonica e alle sue conseguenze su un uso efficiente di questo gas) sia quelle di sicurezza. Questo comporta che chi tratta il ciclo frigorifero sia ancor più professionale, ancor più preparato e ancora più attrezzato, perché se è vero che sull’efficienza si è lavorato molto sulla sicurezza in campo è il singolo a dover fare i conti, di nuovo, con gas che si infiammano, che intossicano, che asfissiano. E questo richiede attenzione.
Il primo indice di impatto climatico
La battaglia per contenere il propagarsi del buco nell’ozonosfera fu il primo dei grandi temi climatici ad essere messo in campo dal mondo scientifico. Nel 1983 uno studioso americano, Donald Wuebbles, propose un indice di valutazione dell’impatto dei clorofluorcarburi rispetto all’ozono e strutturò un Ozone Depletion Potential calcolato in rapporto al potenziale danno all’ozonosfera causato dal rilascio di una uguale massa di triclorofluormetano, il “mitico” R-11 o Freon 11, che per anni è stato utilizzato largamente come refrigerante di riferimento in moltissimi impianti e applicazioni. Alto quindi è l’indice di impatto sul fronte dell’ozono dei clorofluorcarburi, minore quello degli idroclorofluorcarburi. L’indice ODP è stato un riferimento significativo finché sono stati utilizzati refrigeranti contenenti nella molecola base atomi di cloro: la sua eliminazione dalla molecola nella generazione HFC ha determinato la perdita di significato dell’indice, perché i refrigeranti non contenevano più molecole ozonolesive, ma è rimasto un valore citato per descrivere l’impatto dei refrigeranti di vecchia generazione, ancora spesso in uso in impianti molto datati o in Paesi con normative meno cogenti sul fronte della tutela ambientale.
GWP e tCO2 equivalenti: refrigeranti e riscaldamento globale
Ad oggi il principale punto di discussione è il contributo all’incremento della temperatura che sostanze come i refrigeranti sintetici producono al loro rilascio in atmosfera. La questione è stata definita in una modalità abbastanza facilmente leggibile: viene indicato come valore unitario di potenziale riscaldamento globale o Global Warming Potential il riscaldamento causato da una molecola di anidride carbonica. Questa unità di misura permette di calcolare quanto “pesa” un gas refrigerante emesso in atmosfera in termini di tonnellate di anidride carbonica equivalente su un arco temporale di 100 anni. Ricordiamo per maggiore chiarezza che l’enfasi attuale sul ritorno ai refrigeranti tradizionali è determinata fondamentalmente dal fatto che i tre principali refrigeranti tradizionali, anidride carbonica, propano e ammoniaca hanno un indice GWP rispettivamente di 1, 3 e 0, mentre un altro dei più diffusi refrigeranti utilizzati fino a poco tempo fa, l’R410a ha un indice 2088 e l’R32, particolarmente in uso nella climatizzazione in tempi recenti, ha un GWP 675. Il GWP è diventato una parola chiave nel lavoro di ogni impiantista e lo rimarrà fintanto che la transizione ecologica non avrà portato la stragrande maggioranza degli impianti ad adottare di nuovo i refrigeranti tradizionali.
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